PROF. MARIO POLLO
“Società Liquida” – crisi delle Istituzioni come i grandi cambiamenti sociali agiscono sulla vita delle persone e delle Istituzioni
Relazione del Prof. Mario Pollo, docente di pedagogia sociale dell’Università Pontificia Salesiana e della LUMSA
Le trasformazioni della seconda modernità
Per comprendere la liquefazione della modernità è necessario ricordare, a mò di premessa, le trasformazioni socioculturali che la modernità ha avviato e che costituiscono il punto di partenza di quelle in atto nell’attuale fase storica.
L’obiettivo delle trasformazioni della modernità era quello di mettere al centro della cultura sociale la razionalità strumentale e/o dell’economia e di eliminare, quindi, dalla cultura sociale tutto ciò che ostacolava un razionale calcolo dei risultati, liberando lo spirito di iniziativa imprenditoriale dalle pastoie dei doveri familiari, dal tessuto degli obblighi etici, ecc.
Non è un caso perciò che in questa fase storica l’ordine economico abbia imposto il suo dominio alla totalità della vita umana, rendendo irrilevante tutti gli altri accadimenti che in essa potevano manifestarsi. Per raggiungere questo obiettivo la modernità doveva liberarsi, dissolvendolo, da tutto ciò che persiste nel tempo, che è insensibile al suo passare e immune al suo fluire. Questa liberazione doveva necessariamente passare attraverso la dissoluzione del sacro, che è per antonomasia ciò che manifesta l’atemporale e l’eterno nella vita della società, ed il ripudio e la detronizzazione del passato per mezzo della dissoluzione della tradizione che, come è noto, è il sedimento del passato nel presente. ( Baumann Z., Modernità liquida, Laterza, bari, 2002)
Oltre a questo la prima modernità ha disgiunto lo spazio ed il tempo nell’esperienza della vita quotidiana. Il tempo si è separato dallo spazio quando la velocità di movimento e di comunicazione non è più stata legata alla velocità di organismi o elementi naturali ma è diventata una questione di ingegno.
In altre parole la velocità non è più dipesa dalla capacità di locomozione degli esseri umani o degli animali, come ad esempio il cavallo, ma dall’invenzione di mezzi di trasporto come il treno, l’automobile, l’aereo o di mezzi di comunicazione come il telegrafo, la radio e il telefono.
La velocità è emersa come un elemento importante nella definizione dello spazio perché ha fatto sì che le distanze perdessero la loro consistenza oggettiva per assumere quella soggettiva, fortemente dipendente dalla stessa velocità. Lo spazio-tempo sin dalla prima modernità si è avviato sulla strada che lo ha condotto a divenire uno spazio-velocità. Il compimento della trasformazione dello spazio-tempo in spazio-velocità è pienamente in atto in questa seconda modernità per effetto dell’evoluzione prodigiosa degli strumenti di comunicazione, sia di quelli del trasporto delle merci e delle persone che di quelli della trasmissione delle informazioni e dei comandi dell’azione. Per questi ultimi la velocità di trasmissione è oramai quasi prossima al limite (la velocità della luce). A questo proposito Paul Virilio afferma:
“Viviamo in un mondo fondato non più sull’estensione geografica, ma su una distanza temporale che viene costantemente ridotta dalle nostre capacità di trasporto, trasmissione e azione telematica…Il nuovo spazio-velocità non è più uno spazio-tempo” (Armitage J. (a cura di), Virilio Live: Selected Interviews, London, 2001, pp. 84,71.)
Per questo studioso, infatti:
“la velocità non è più un mezzo, ma un milieu; si potrebbe dire che la velocità è una sorta di sostanza eterea che satura il mondo e nel quale viene trasferita sempre più azione, acquisendo in questo processo nuove qualità che solo tale sostanza rende possibili e ineluttabili”.
I fenomeni sociali, economici e tecnologici che sono alla base della formazione dello spazio-velocità hanno avuto dei profondi effetti anche sul tempo, in particolare hanno trasformato il tempo poetico in tempo spazializzato, come si vedra tra poco.
La liquefazione della modernità
Sul tessuto socioculturale, prodotto dai cambiamenti che hanno caratterizzato la prima modernità, si sono innestate delle nuove e più radicali trasformazioni che stanno producendo una frattura nei confronti del passato, e anche del futuro, priva di qualsiasi riscontro in altre epoche della storia umana.
Frattura che si fonda, oltre che su una ulteriore trasformazione delle dimensioni del tempo e dello spazio che hanno caratterizzato le epoche precedenti, sul ruolo sociale assunto dall’immaginazione.
Questo cambiamento culturale così radicale, secondo le letture più aggiornate, sarebbe il prodotto di due fenomeni congiunti – l’avvento dei media elettronici e le migrazioni – sull’opera dell’immaginazione, che, come è noto, è un tratto caratteristico della soggettività moderna.
Le migrazioni di massa, pur essendo un evento che costella la storia umana fin dalla preistira, hanno assunto nel mondo contemporaneo un carattere assolutamente nuovo perché esse interagiscono con il flusso mondiale delle immagini mass medianiche. Ciò produce la situazione inedita di immagini e spettatori che sono entrambi in movimento. In questo fenomeno, secondo alcuni studiosi, risiede il nucleo della relazione tra globalizzazione e modernità. (Appadurai A., Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001; pp.16-17)
L’immaginazione e la costruzione di sé
A questo proposito occorre osservare che l’immaginazione nel mondo post elettronico ha abbandonato i territori tipici in cui ha sempre abitato, come, ad esmpio, quelli dell’arte, del mito e del rito, per entrare a far parte del lavoro quotidiano della gente comune in molte società. Infatti, nella vita sociale attuale, l’immaginazione ha assunto un ruolo inedito che la vede non più come un’opera della fantasia, una forma di evasione, un passatempo per élite colte, ma come forma di azione individuale e sociale.
In questo contesto i media elettronici sono divenuti per le persone delle risorse per la sperimentazione di costruzioni di sé. Infatti,
“consentono di intrecciare sceneggiature di vite potenziali con il fascino delle star dello schermo e di trame cinematografiche fantastiche, ma consentono anche a quelle vite di agganciarsi alla plausibilità degli spettacoli di informazione, dei documentari, e di altre forme in bianco e nero di telemediazione e di testi a stampa. Solo per via della molteplicità delle forme in cui appaiono (cinema, televisione, computer e telefoni) e a causa della rapidità con cui si muovono attraverso le ordinarie attività quotidiane, i media elettronici forniscono risorse all’immaginazione del sé come un progetto sociale quotidiano”. (Appadurai A., come sopra)
E’ interessante notare come l’adattamento degli immigrati, e la loro stessa decisione di partire, sia spesso profondamente influenzato dall’immaginario mass mediatico.
Questò fa sì che la vita delle persone sia sempre più immersa nella “finzione”, ovvero nel mondo delle immagini prodotto dai mass media elettronici.
Questa immersione sembra aver dilatato enormemente le conoscenze di cui sono in possesso le persone, mentre in realtà ha solo reso astratti gli oggetti del loro conoscere.
Infatti sempre più oggi si è convinti di conoscere, quando in realtà si è in grado solo di riconoscere.
Solo perché una cosa la si è vista si pensa di conoscerla, come ad esempio accade nei confronti dei personaggi televisivi che la gente crede di conoscere ma che in realtà riconosce solamente, perché vedere non significa necessariamente osservare, comprendere e interpretare. Questa immersione nel regime della finzione mass mediatica fa sì che si produca un indebolimento della capacità di rapportarsi all’altro, che si è visto ma che, contemporaneamente, è privato della sua realtà complessa e reso astratto in una immagine, in un simulacro.
L’aver sostituito i media alle mediazioni simboliche ha, infatti, prodotto un’interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità. I media, infatti, consentono spesso solo di ri-conoscere, dando però l’illusione di conoscere. Questo indebolisce indubbiamente la possibilità di stabilire un contatto con l’altro reale offrendo in cambio la possibilità di un contatto esteso con il simulacro dell’altro. Se l’alterità è un simulacro anche l’identità diviene un simulacro. Perdere il contatto con l’altro significa perdere il contatto con se stessi.
Questa crisi della capacità di alterità mette in crisi perciò l’identità delle persone che, come è noto, si nutre della dialettica identità/alterità.
Alcuni studiosi vedono, sulla scia della lezione di Durkheim, nell’indebolimento della dialettica tra alterità ed identità un fattore di produzione della violenza.
Nel labirinto prodotto dalla virtualità relazionale e dalla complessità sociale il non avere una identità stabile, coerente e unitaria è ritenuto normale. Il modello di identità che viene proposto, infatti, è quello di una identità frammentata, composita, in continua evoluzione, ambivalente, contraddittoria e mai compiutamente raggiunta. Questo tipo di identità debole è teorizzata sia a livello filosofico che sociologico.
Nel rapporto con la realtà esterna si tenta di accreditare, in coerenza con il concetto di identità debole, l’impossibilità di comprendere e di dominare efficacemente la realtà. L’unico modo possibile per l’abitante delle società odierne di porsi nei confronti della realtà è quello di chi tace e se formula una domanda non pretende risposta.
L’identità debole, infatti, frantuma l’esperienza dell’appartenenza sociale delle persone facendo sì che i loro vissuti siano divisi in tanti frammenti, tra loro isolati, che non riescono a dar vita ad una esperienza esistenziale unitaria.
La frantumazione dell’esperienza esistenziale e sociale è prodotta oltre che dall’identità debole, anche dalla complessità sociale che ha, a sua volta, frantumato la cultura sociale facendo sì che essa non sia più organizzata attorno ad un unico centro simbolico, ma bensì attorno ad una pluralità di centri che forniscono ai valori sociali una legittimità parziale e precaria.
Il non avere un centro simbolico unico che conferisca legittimità ai valori rende impossibile qualsiasi scelta o semplice gerarchizzazione, oltre che degli stessi valori, dei bisogni e delle opportunità presenti nella società. L’impossibilità di scegliere e di gerarchizzare i valori, i bisogni e le opportunità segna l’orizzonte di senso di chi abita la complessità che caratterizza le società della tarda o della seconda modernità.
In conseguenza di questo ogni esperienza che la persona vive acquisisce un significato relativo che si esaurisce all’interno dell’esperienza stessa, non riuscendo a collegarsi alle altre esperienze esistenziali e quindi ad un senso più generale. Questo comporta, tra l’altro, una forte difficoltà da parte della persona a dare coerenza ai suoi atteggiamenti e comportamenti che manifesta lungo l’asse del suo tempo quotidiano.
L’immaginazione, la deterritorializzazione e la globalizzazione
Oltre che dell’individuo l’immaginazione odierna è una proprietà della collettività. Infatti, i media rendono possibile la creazione di una “comunità di sentimenti”, di un gruppo, cioè, che immagina collettivamente. La fruizione collettiva di video e film può creare quelli che vengono definiti sodalizi di culto e carisma.
Questi sodalizi sono comunque sempre comunità che possono passare dall’immaginazione condivisa all’azione collettiva.
Un esempio di questo sodalizio è quello che si è sviluppato, all’interno dell’islamismo radicale, intorno al terrorista Bin Laden.
Il fatto che questi sodalizi siano spesso trasnazionali, fa sì che al loro interno si possano intrecciare le diverse esperienze locali, che convergono nella produzione dell’azione traslocale.
Questo fenomeno è leggibile in particolare nell’esperienza della de-territorializzazione, che è sperimentata dalle grandi masse di persone che emigrano dal loro luogo di origine alla ricerca di un lavoro, e che si esprime nell’incapacità da parte di queste persone di elaborare un senso di appartenenza forte nei confronti del luogo in cui vivono. In altre parole questo indica l’sperienza di essere in un luogo ma nello stesso tempo di essere altrove.
Basti pensare agli immigrati che attraverso i media elettronici possono restare in contatto con l’immaginario del proprio paese. Il tassista pakistano che nel suo taxi a New York ascolta la cassetta dell’omelia del mullah che gli hanno spedito i suoi parenti. O ancora, l’immigrato turco
che in Germania ogni sera vede i programmi televisivi del suo paese d’origine. Per non parlare della possibilità offerta da Internet, non solo di contatti in tempo reale con i propri connazionali, ma anche, più semplicemente, di leggere i quotidiani appena editati dei propri paesi di origine. In alcune situazioni la daterritorializzazione crea sentimenti esagerati o intensificati di critica o attaccamento emotivo verso la politica dello stato di provenienza, e quindi essa è spesso al centro di fondamentalismi globali, compreso quello islamico” ( Appadurai A., op.cit. p.58)
In altri casi la deterritorializzazione è al centro della creazione di vere e proprie patrie inventate. Un esempio è il “Khalistan” che è una patria inventata dalla popolazione sikh residente in Inghilterra, Canada e Stati Uniti.
In alcuni casi tutto questo è all’origine di azioni violente, ma nel contempo è anche all’origine di forme di business, come ad esempio delle agenzie di viaggio che prosperano sul bisogno di contatto da parte della popolazione deterritorializzata con la propria patria, reale o inventata.
In ogni caso, per l’effetto congiunto di migrazioni e media elettronici, i nazionalismi che compaiono in molte parti del mondo sono basati su forme di patriottismo che non sono esclusivamente di tipo territoriale. Anche perché, in questo contesto, gli stati nazionali non sembrano essere in grado di regolare, nel lungo periodo, la relazione tra modernità e globalità.
Basta pensare ai dibattiti sul multiculturalismo e, quindi, alla perdita di legittimità della possibilità da parte di uno stato nazionale di imporre a tutti i suoi cittadini e quindi, anche alle proprie minoranze, un modello culturale. Anche perché gli stati nazionali non possono impedire alle minoranze etniche presenti nei loro territori di collegarsi alle più ampie aggregazioni di affiliazione etnica o religiosa.
Tutto questo porta all’emersione di un ordine post-nazionale basato sulle relazioni tra soggetti eterogenei come i gruppi di pressione, i movimenti sociali, i corpi professionali, le Ong, le forze armate e di polizie, i corpi giudiziari.
La domanda che sorge tra gli studiosi di questa trasformazione socio-culturale è se questo ordine post-nazionale riuscirà a creare alcune convenzioni minime intorno ad alcune norme e valori, senza per questo chiedere l’adesione ai principi della tradizione democratico/liberale della modernità occidentale. Per ora questo processo, negoziabile, è ben lungi dall’aver prodotto risultati apprezzabili, e in questa fase storica la violenza e la barbarie sembrano espandersi nel mondo prive di un efficace controllo.
La ricerca dell’omogeneizzazione culturale non è comunque la via per vincere la violenza e la barbarie, per cui la sola speranza concreta è che i processi di globalizzazione riescano a costruire questo nuovo ordine basato sull’eterogeneità.
Per raggiungere questo obiettivo è però necessario tenere conto che il mondo è diventato un sistema di iterazioni di tipo nuovo e di nuova intensità, che lo rende molto diverso da quello del passato, in cui le “transazioni culturali erano solitamente contenute, a volte per via di costrizioni geografiche ed ecologiche, altre volte per una voluta resistenza all’iterazione con l’altro” (Appadurai A., op.cit. p.45)
La guerra e il proselitismo religioso sono stati sino al XX secolo le due forme principali di iterazione sistematica tra i diversi gruppi sociali.
Questo significa che il mondo attuale si trova a vivere una situazione inedita nella storia umana che, spesso, non viene compresa perché ad essa si applicano modelli che sono antecedenti o inadeguati per affrontare questo nuovo mondo.
Basti pensare alle paure indotte dal considerare la globalizzazione come il luogo dell’omogeneizzazione. Omogeneizzazione che alcuni vedono come il prodotto della americanizzazione e, altri, della mercificazione.
I fautori di questi tesi, semplificatrici, non riescono ad osservare che le “cose” quando vengono importate in società diverse tendono, abbastanza rapidamente, ad essere indigenizzate e che spesso queste paure sono sfruttate dagli stati nazionali per allontanare lo sguardo dei loro cittadini dalle ingiustizie e dalle minacce egemoniche locali. Per sfuggire a questo riduzionismo è necessario osservare che la complessità della nuova economia culturale globale nasce dalle disgiunzioni in essa presente tra economia, cultura e politica. Disgiunzioni che sono osservabili solo attraverso la lente delle cinque principali dimensioni dei flussi culturali e globali.
Queste dimensioni sono costituite dalle persone in movimento (turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori, ospiti ecc), dalla ineguale distribuzione della tecnologia prodotta dalla relazione complessa tra flussi di denaro, possibilità politiche, disponibilità di forza lavoro specializzata o generica, dalla disposizione del capitale globale, dalla distribuzione della capacità di produrre e diffondere informazione e, infine, dalla distribuzione di parole, immagini e idee di tipo politico come liberta, democrazie, benessere, sovranità, rappresentanza, ecc.
Occorre tenere conto che ognuno di questi flussi risponde da un lato alle sue regole e alle sue situazioni interne, ma, dall’altro lato, esso è condizionato e condiziona gli altri flussi e questo rende l’economia culturale imprevedibile e disgiuntiva.
E, comunque, all’interno di questi flussi culturali che potrà essere disegnato il nuovo mondo in cui la globalizzazione diventa garanzia sia dell’eterogeneità che del rispetto di norme e di valori essenziali, al di là dei diversi orizzonti religiosi, politici, etnici, e dei diversi mondi immaginati.
La condizione perché questo si realizzi richiede tre cambiamenti. Il primo è la trasformazione dell’immaginazione mediatica in conoscenza. Il secondo è quello costituito dalla riscoperta dell’alterità come fondamento della vita personale. Il terzo è fondato sulla riscoperta di una progettualità umana e sociale che restituisca il tempo alla storia. La riscoperta, cioè. Di un tempo in cui l’uomo possa scoprire e tessere il senso della sua vita.
Oltre la dissociazione dello spazio-tempo: il tempo spazializzato
Questa riscoperta è necessaria perché il tempo dell’attuale cultura sociale è stato messo in crisi da alcune radicali trasformazioni. Basta pensare a come il rapporto tempo/vita umana nella cultura dell’attuale società è stato banalizzato, ridotto ad un puro evento meccanico mentre la vita dell’individuo, e forse anche quella della società, è stata privata della dimensione progettuale.
Il tempo nella cultura sociale attuale non ha alcuna consistenza se non il suo scorrere regolare ed omogeneo. In altre parole questo significa che nell’attuale vita sociale non si riconosce al tempo alcuna qualità rilevante per la vita umana se non la sua disponibilità. Sono le cose che si fanno che rendono il tempo prezioso o dozzinale, pieno o vuoto, costruttivo o distruttivo. Il tempo libero, o addirittura la festa, non ha alcun valore se non quello di essere sottratto al lavoro e reso disponibile per il riposo, lo svago e il gioco.
E’ questa, indubbiamente, una concezione riduttiva del tempo a cui fa da contrappunto l’offuscamento della concezione del tempo storico, intesa nel senso biblico dell’assunzione di responsabilità della memoria dell’uomo verso il suo futuro.
Questa concezione, infatti, sembra essersi dissolta e di essa rimane traccia solo all’interno di sempre più esigue minoranze sociali. Ad essa sembra essersi sostituita la concezione di un tempo quotidiano insignificante. La vita umana, nella sua dimensione quotidiana, sembra non offrire più alcun senso esplicito e comprensibile che possa essere considerato vero. La vita quotidiana, infatti, sembra risolvere la ricerca della felicità umana esclusivamente all’interno dei gesti che connotano il consumo quotidiano delle informazioni, dei beni materiali e delle relazione sociali.
La cultura del piacere sembra avere sostituito la cultura della felicità sovrapponendosi ad essa. Il futuro è più sovente evocato come minaccia piuttosto che come promessa di felicità. Solo il presente sembra poter offrire strade percorribili alla ricerca di felicità/piacere.
Dentro questa opacità di senso del quotidiano balenano sovente antiche suggestioni che inducono molte persone ad abbandonare il centro esistenziale costituito dalla loro coscienza razionale per affrontare la ricerca di sensi completamente irrazionali, astorici e inconsci della loro esistenza.
L’esoterismo, con le sue pratiche misteriche, che sovente debordano nel ridicolo, rappresenta molto bene questa ricerca che porta l’uomo lontano dal suo tempo quotidiano e dalla sua storia per immergerlo in un tempo privo di qualsiasi rilevanza per la sua vita nella realtà del mondo o che, al massimo, gli offre l’illusione di poter manipolare magicamente, senza la sofferenza dell’impegno quotidiano, il mondo stesso.
Chi non si abbandona a questa fuga dalla realtà del quotidiano rimane molto spesso prigioniero del tempo inteso come somma di opportunità di consumo e cerca disperatamente di elevare il proprio consumare ad atto dotato di senso per la sua esistenza, bruciando senza accorgersene la sua memoria del passato ed il suo sogno di futuro.
Anche se non esclusiva questa cultura del tempo è oggi dominante e lo scorrere del tempo è ridotto ad un meccanico movimento, utile solo alla regolazione della vita sociale, all’interno del quale ogni istante è separato da tutti gli altri.
La solitudine di ogni istante è il segno dell’impossibilità del tempo di proporsi come un disegno dotato di un senso globale e in cui ogni momento assume la funzione di un particolare. Ogni istante, infatti, propone il suo significato, irrimediabilmente relativo e soggettivo, senza avere la pretesa di proporsi come un passo di quel cammino che prende il nome di storia.
Questa concezione del tempo ossessivamente fissato sul proprio presente, fissato cioè sull’istante in cui esso appare alla coscienza, porta con sé necessariamente anche la concezione dell’inconsistenza e della illusorietà del tempo essendo questo considerato solo come la manifestazione di ciò che accade nello spazio.
In altre parole questa concezione postula che il tempo esista solo come prodotto degli eventi che accadono nello spazio. Senza eventi non si avrebbe tempo e sono quindi questi a dare la qualità del tempo.
Questa trasformazione del vissuto del tempo è uno dei prodotti della rottura dell’equilibrio tra sociotemporalità e nootemporalità e del conseguente predominio della prima. L’affermazione della sociotemporalità caratterizza le società complesse.
La nootemporalità è la concezione del tempo tipica della condizione dell’uomo e nasce dal fatto che esseri umani “sono capaci di comprendere il mondo nei termini di un futuro e di un passato distanti, e non solo nei termini delle impressioni sensoriali del presente” (Fraser J.T., Il tempo una presenza sconosciuta, Feltrinelli, Milano, 1993, p.17) e che le loro azioni nel presente sono influenzate dalla consapevolezza della morte, che appare come “un ingrediente essenziale del tempo dell’uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato” (Fraser J.T., op. cit. p.22)
Il tempo che dal futuro attraverso il presente scorre verso il passato è il telaio che tesse l’ordito della vita umana nel mondo e che orienta tutte le domande e le risposte di senso degli uomini maturi emersi dalla coscienza.
Infatti, almeno nell’orizzonte dell’Occidente, la vita umana trova il suo senso nella storia, cioè nella memoria e nel progetto di futuro.
All’interno della concezione del tempo di questo tipo l’atteggiamento degli adulti verso le nuove generazioni è sempre stato legato da un lato alla fedeltà verso la memoria e dall’altro lato ai progetti di futuro.
L’educazione e la socializzazione che una società, saldamente inserita nella nootemporalità, propone alle nuove generazioni è sempre finalizzata a porre queste in continuità con la storia, ovvero a fare sì che la vita dei giovani sia coerente con la memoria del passato e con i progetti di futuro di cui il presente degli adulti è l’espressione.
Oggi proprio perché la concezione del tempo poetico sembra essersi oscurata, l’atteggiamento degli adulti verso le nuove generazioni non sembra essere coerente con questa concezione, in quanto appare indebolita sia la capacità degli adulti di inserire i giovani nell’alveo vitale della memoria sia quella di affidare loro un ruolo nel progetto del futuro.
L’atteggiamento degli adulti verso le nuove generazioni sembra, al contrario, essere centrato sull’inserimento di questi ultimi nel presente , ovvero sulla loro integrazione nel sistema sociale in modo che la loro presenza non lo perturbi e sia funzionale alla sua vita nel presenta.
Questo significa che il problema educativo e socializzante ce gli adulti debbono risolvere è ridotto all’inserimento dei giovani nella vita del sistema sociale così come esso è e non, quindi, all’affidamento ad essi della continuità della storia nel tempo futuro. Questo manifesta l’emersione nella cultura sociale del dominio di quella concezione del tempo che è stata chiamata sociotemporalità.
La sociotemporalità è null’altro che la socializzazione del tempo che si esprime nella sincronizzazione e nella pianificazione delle azioni collettive senza cui nessuna società può esistere. Il tempo sociale è fondato sull’esistenza del presente sociale, che è l’intervallo di tempo necessario a consentire alle persone di agire di concerto. Il presente sociale si forma e si mantiene attraverso la comunicazione che interrala i membri di un determinato gruppo sociale e l’ampiezza dell’intervallo temporale che lo costituisce dipende dalla velocità dei processi di comunicazione. E’ chiaro che quando i messaggi venivano portati da corrieri a cavallo il presente sociale era molto esteso, mentre ora che i messaggi viaggiano ala velocità della luce esso è molto piccolo. Nello sviluppo dello spazio-velocità il presente sociale è destinato a divenire sempre più piccolo sino ad approssimarsi al limite dello zero.
Oltre a questo è importante sottolineare il legame tra la sociotemporalità e le relazioni tra le persone, perché essa è tanto più sviluppata nella vita delle persone quanto più queste sono in relazione. E questo significa anche che più la sociotemporalità è sviluppata più gli stili di vita, i valori e le condotte delle persone divengono omogenei.
La sociotemporalità mantiene il suo valore solo se si armonizza con la nootemporalità, ovvero solo se le esigenze della sincronizzazione sociale non entrano in conflitto, o ostacolano, il progetto particolare di vita dell’individuo, non mettono cioè in pericolo la sua unicità, la sua differenza particolare, ovvero non minano la sua identità personale e storico culturale.
Oggi si assiste, invece, ad una dilatazione della temporalità sociale prodotta dai bisogni delle economie e delle culture delle società complesse globali.
Infatti,
“Via via che i bisogni e le necessità politiche costringono il genere umano ad adottare un comune ritmo di lavoro, procedimenti industriali simili e ragionamenti scientifici identici, viene a mancare la base stessa della molteplicità dei modi di socializzazione e di valutazione del tempo, che ci ha accompagnato sin dall’inizio della storia”. (Fraser J.T., op. cit. p. 300)
Le tecnologie della comunicazione che relano gli individui nelle società complesse tendono sempre più a far dipendere, per la loro sopravvivenza , questi individui dalla rete del sistema informativo in cui sono inseriti. La possibilità di lavorare a distanza, di avere diagnosi sulla loro salute via telefono, di ricevere ciò di cui hanno bisogno a domicilio, di avere informazioni in tempo reale attraverso la televisione e la radio, di partecipare a video conferenze, ecc, tutto questo fa sì che le persone debbano occuparsi solo del loro presente, mentre la capacità di fare progetti a lunga scadenza, come l’imparare dal passato, dipende sempre di più dagli specialisti.
Il presente diventa l’unica dimensione esistenziale significativa per la vita delle persone . La storia, invece, diventa un impaccio perché è molto più semplice garantire “la collaborazione tra persone prive di senso storico, che non fra popolazioni con storie diverse e solitamente antagoniste”. (Fraser J.T., op.cit. p.305)
L’omogeneizzazione della temporalità degli individui, oltre che dall’abolizione della loro dimensione esistenziale di tipo storico è causata anche dall’ingrigimento del calendario, ovvero alla riduzione delle differenze tra il giorno e la notte, delle distinzioni tra i giorni della settimana, tra i giorni feriali e quelli festivi e, infine, delle diversità delle stagioni.
Negli stati Uniti ci sono negozi, banche e supermercati che stanno aperti 24 ore, in Italia si cerca di abolire la chiusura domenicale dei negozi e con alcuni contratti di lavoro si sta tentando di abolire il riposo festivo dei lavoratori, per distribuire in modo più funzionale l’alternanza dei giorni di lavoro e di riposo. Ma oltre a questo si mangiano frutti e verdure senza più alcun riferimento alla stagione della loro maturazione e la gente pratica le stesse attività in inverno come in estate.
L’ingrigimento del calendario non è, quindi, che il segno della colonizzazione del tempo che oggi è in atto. A questo proposito un sociologo, Murray Melbin, “ha osservato che la vita sociale notturna nelle aree urbane assomiglia alla vita di frontiera, e ha chiamato questo fenomeno colonizzazione del tempo…Ma come è avvenuto per le vecchie zone di frontiera, il mondo notturno si prepara a diventare l’abitazione di tutti”. (Fraser J.T., op.cit. p. 305)
La colonizzazione del tempo e l’abolizione progressiva del calendario creano le condizioni preliminari alla costruzione di un ordine temporalmente omogeneo su scala planetaria. “infatti, è molto più facile garantire la collaborazione tra persone che non hanno un calendario piuttosto che fra persone che hanno al riguardo tradizioni diverse, tenute in vita fra l’altro proprio allo scopo di conservare la propria diversa identità di gruppo”. (Fraser J.T. op.cit. p.306)
Tutto il processo di omogeneizzazione del tempo e, quindi, dei modi di vita delle persone è finalizzato all’aumento della produttività del lavoro umano e a migliorare la qualità della vita delle persone. Tuttavia proprio perché sradica le persone dalla temporalità noetica produce esattamente il contrario di ciò che si propone, ovvero un abbassamento della qualità della vita delle persone e una perdita della loro capacità di governare e di dare senso alla propria vita.
Secondo altri autori questo fenomeno è prodotto dalla “spazializzazione del tempo” che non sarebbe altro che il risultato della supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle temporali che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della sincronicità spazializzante.
Immersi in questo tempo spazializzato gli individui perdono la coscienza della propria appartenenza alla storia e, quindi, anche la propria capacità di produrre storia e divengono delle comparse prive di memoria e di sogni di futuro. Questo fa si che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come reale. Le dimensioni del passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale ad un insieme spaziale.
All’origine di questa trasformazione della temporalità vi sono fenomeni sociali complessi come l’urbanizzazione, l’espansione della tecnologia e della presenza dei fondamenti tecnico scientifici di tipo universalistico nelle culture locali, il predominio del senso ottico, ovvero il predominio delle immagini rispetto alla parola parlata e scritta e, infine, all’influenza dell’industria culturale che per evitare che l’effetto del rapidissimo succedersi delle sue proposte abbia effetti distruttivi sulla sua stessa produzione deve appiattire l’esperienza del tempo a favore della simultaneità.
Crisi della progettualità e degli impegni di lunga durata
Questa trasformazione della temporalità ha degli effetti profondi sull’identità delle persone, sulla loro coscienza e sulla possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
Non è casuale che oggi il percorso di conquista dell’identità che le nuove generazioni debbono percorrere sia frammentato, accidentale e che spesso conduca a quelle forme che prima si sono definite “deboli”. Allo stesso modo la vita, priva del tessuto del progetto e della storia, appare sempre di più come un caotico susseguirsi di opportunità a volte positive ed a volte negative, piacevoli o spiacevoli ma in cui comunque il paradigma del consumo si manifesta come dominante. La coscienza della propria responsabilità personale e sociale risulta indebolita e la persona sembra avere responsabilità, spesso illusoria, solo verso se stessa e le persone che le sono spazialmente ed affettivamente prossime.
Questa incapacità delle persone di governare la propria vita lungo l’asse storico del tempo si manifesta in una concezione di vita a-progettuale, di una vita cioè che si costruisce, all’interno della sociotemporalità, attraverso la capacità di cogliere con un atteggiamento pragmatico e utilitaristico le occasioni e le opportunità che la vita quotidiana offre, senza la necessità di porsi domande se queste stesse occasioni sono coerenti o meno con il proprio progetto di vita, ovvero se sono compatibili con i propri sogni di futuro e con la propria storia, individuale e sociale.
Il risultato è una persona che vive senza un’etica che non sia quella dell’utilità personale e dell’adattamento alla realtà sociale ed alla sua cultura.
Di una persona che non sa assumere impegni a medio e a lungo termine, che non sa sacrificarsi e rinunciare alle gratificazioni che il presente offre in nome della coerenza a un impegno di costruzione di un futuro personale e sociale.
Oltre la dissociazione spazio-tempo: i non luoghi
Oltre al tempo è in atto una profonda trasformazione del vissuto dello spazio, che si manifesta, oltre che nello spazio-velocità e nella deterritorializzazione, attraverso la comparsa ad un ritmo crescente nelle realtà urbane, ma spesso anche in realtà un tempo definite come rurali, dei non luoghi.
La parola “luogo” indica quella costruzione concreta e simbolica dello spazio che assolve alla funzione identitaria, a quella relazionale e a quella storica. Esso offre a chi lo abita un principio di senso e a chi lo osserva l’intelligibilità.
Questo vuol dire che il luogo non è semplicemente uno spazio, ma è uno spazio umanizzato e abitato. Uno spazio che non solo è interpretato ma che fornisce a chi è al suo interno le chiavi di interpretazione e di attribuizione di senso della realtà. E questo avviene perché il luogo inserisce le persone all’interno di una storia, di una memoria e di un progetto di futuro e perché esso offre le informazioni e le norme che fanno sì che le persone che lo abitano assumano particolari comportamenti e vivano le relazioni primarie e secondarie in un modo affatto particolare.
Oggi molti studiosi affermano che il luogo non esiste più perché i media elettronici, e la televisione in particolare, hanno rotto il legame che univa determinati comportamenti, atteggiamenti e stili di vita a determinati spazi fisici e simbolici.
Questo legame era costituito, da un lato, dalle convenzioni situazionali che fissavano per i vari luoghi i comportamenti appropriati e, dall’altro lato, dal fatto che chi stava in un medesimo luogo condivideva delle particolari informazioni e valori che potevano essere conosciute solo all’interno di quel particolare luogo e non altrove.
La televisione rompendo questo legame tra collocazione fisica e situazione sociale ha confuso le identità di gruppo che un tempo erano separate.
Questo è avvenuto perché gli individui attraverso il media televisivo hanno potuto sfuggire dal punto di vista informativo ai gruppi ancorati in un luogo definito e hanno potuto invadere molti luoghi a cui erano estranei senza neppure entrarci.
L’identità di gruppo, come è noto, si fonda sulla condivisione di sistemi simbolici comuni e particolari e, quindi, sia la diffusione agli “estranei” dei contenuti del sistema simbolico legato ad un luogo particolare, sia il venire a conoscenza per gli abitanti di un luogo dei sistemi simbolici presenti in altri luoghi ha di fatto prodotto una omogeneizzazione dei luoghi che è il primo passo verso il luogo unico.
All’interno di questa omogeneizzazione dei luoghi si assiste poi a una rapida e per ora irreversibile espansione dei non luoghi.
Il non luogo è uno spazio che non può definirsi né come identitario, né come relazionale e né come storico, ed è quello che in misura ragguardevole si sperimenta quando si viaggia in autostrada, quando si acquista una bevanda al distributore automatico o si preleva denaro al bancomat, quando si fa la spesa al supermercato o si sta aspettando all’aeroporto un volo.
Questi citati, insieme ad altri, sono i non luoghi reali della società contemporanea.
Lo spazio che le persone abitano è in gran parte costituito da non luoghi ed e, quindi, uno spazio che non offre alcuna identità e che non pone particolari richieste situazionali ma solo prescrizioni astratte e impersonali, che non sono in grado di connettere le persone ad uno spazio oggettivo e le lasciano in balia della loro soggettività e di quelle a loro più prossime.
Questo significa un ulteriore indebolimento dell’identità personale e storico culturale delle persone ed il loro inserimento in sistemi relazionali anonimi e massificati, in cui i sistemi simbolici non offrono più chiavi significative e particolari di interpretazione della realtà.
L’indebolimento dei legami comunitari e la centralità dell’individuo
La comunità, nelle sue varie forme e manifestazioni culturali, ha sempre rappresentato il luogo in cui le persone potevano inscrivere il proprio progetto personale di vita all’interno di un progetto collettivo e, quindi, condividerlo attraverso i vincoli di solidarietà e altruismo che caratterizzano le comunità autentiche.
Oggi, in questa seconda modernità, si assiste all’attribuzione all’individuo di una centralità assoluta che gli assegna, in modo esclusivo, l’onere di tessere l’ordito della sua vita e la responsabilità totale del successo o del fallimento, che cade principalmente sulle sue spalle.
Si sta passando dai “gruppi di riferimento” preassegnati a quella del “rapporto universale” in cui la destinazione dei singoli sforzi di auto-costruzione non è data in anticipo. I modelli anziché precedere le politiche della vita, e incanalarne il corso futuro, la seguono. Questo genera una profonda angoscia, essendo ogni individuo sottodeterminato rispetto alla propria autocostruzione, che viene esorcizzata in vari modi, ma in particolare con espressioni di forme di egoismo radicale che sconfinano verso il narcisismo e che sono socialmente validate attraverso i miti dell’autorealizzazione.
La liquefazione dei legami comunitari tocca anche quella particolare comunità che è la famiglia, che perde la sua caratteristica di luogo del progetto collettivo per divenire, in molte situazioni, il luogo della convivenza, all’interno di una relazione di intimità, di progetti individuali reciprocamente impermeabili.
In questa famiglia nessun membro sembra disponibile a rinunciare a una parte del proprio progetto personale per sostenere o il progetto dell’altro o la costruzione di un progetto, che realizzi il bene comune della famiglia.
Questo individualismo, che si nutre dell’illusione della assoluta libertà individuale, si manifesta all’interno di sistemi sociali che appaiono sempre più rigidi e immodificabili dall’azione dei singoli.
Le Istituzioni nella modernità liquida
A conclusione qualche riflessione sul tema delle Istituzioni. Per sviluppare questa riflessione si deve partire dal presupposto che le Istituzioni sono strumenti di regolazione dei rapporti umani all’interno di una certa area della vita sociale che hanno anche una funzione più profonda per la vita psichica che è quella di esorcizzare le ansie primarie degli individui.
Quando l’essere umano entra in rapporto con un’altra persona al di fuori di una protezione istituzionale viviamo due tipi di ansie:
- ansia persecutiva
- ansia depressiva
La prima nasce dal vivere l’altro come minaccia, come oggetto cattivo che può mettere in pericolo la propria integrità fisica e questo scatena meccanismi di difensivi paranoidei. La seconda nasce dal timore di non riuscire a stabilire con l’altro un rapporto di cooperazione, e quindi di non poter utilizzare l’aiuto che l’altro può dare.
La funzione dell’Istituzione è di consentire un rapporto con l’altro senza sperimentare ansietà.
Le Istituzioni sono soggette però ad un particolare fenomeno: una volta nate tendono a spostare i loro obiettivi, da quelli originali per cui sono nate a quelli della loro autoconservazione. Centrano quindi la loro attenzione non più sui soggetti di cui dovrebbero regolare la vita, ma sulle persone che le fanno funzionare: l’apparato (ad es. a che ora si cena in un ospedale? Prestissimo, non per esigenza del malato, ma per esigenza del servizio).
Tutta le istituzioni sono soggette a questo processo e tendono anche a sclerotizzarsi e a non essere più flessibili ed adattabili nelle situazioni di grande cambiamento sociale. E ciò fa si che esse siano viste come strumenti non idonei a supportare il cambiamento sociale.
In questa fase storica la sensibilità negativa verso l’istituzione è ai massimi livelli, perché l’istituzione appartiene al sistema sociale che appare rigido, immodificabile mentre le persone vivono una apparente grande mobilità in quanto sono prigioniere della soggettività.
Ciò fa si che le persone non riescano a collegare l’esigenza della loro vita soggettiva con quella delle istituzioni.
Questo porta le istituzioni ad allontanarsi dalla vita reale delle persone.
I fenomeni che segnano la crisi delle istituzioni sono perciò chiaramente due: soggettivazione prodotta dalla modernità liquida e la naturale tendenza delle istituzioni ad autoconservarsi irrigidendosi nelle forme in cui sono nate.
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