Sintesi relativa alle
proposte didattiche dei materiali e dei testi presenti nel MODULO 1.
Sintesi
Per definire cosa sia la Pedagogia è opportuno riflettere sulla radice
etimologica del termine che deriva dal greco παιδαγωγός «pedagogo»] ἀγωγός «che guida». L’etimo del termine rappresenta la
chiave di lettura per comprendere l’intimo significato che si declina in un
duplice movimento: l’andare verso una meta e l’accompagnare il discepolo nel
suo percorso formativo, attraverso la cura e la relazione. Questi sono i due
movimenti che consentono alla persona di conquistare la propria umanità, la
propria irripetibile individualità.
Nella società contemporanea definita
“liquida” per la sua complessità, alcuni studiosi ritengono che il significato
classico di Pedagogia non sia rispondente ai bisogni educativi delle nuove
generazioni, bisogni che emergono non solo nell’età dell’infanzia e della
fanciullezza, ma caratterizzano l’intera parabola esistenziale dell’individuo.
La Pedagogia dunque non può essere considerata come una pura e semplice scienza
portatrice di teorie applicabili come se fossero delle ricette, sempre adatte a
rispondere ai molteplici bisogni formativi, essa è un luogo in cui convergono
le istanze di numerose scienze che indagano il concetto di educazione. La
Pedagogia fornisce delle tesi, ma è l’educazione che propone gli strumenti
concreti per promuovere la formazione dell’individuo nella sua completezza
dimensionale; la Pedagogia è per questo costituita da numerosi saperi che
indagano, da un lato le differenti dimensioni della persona, dall’altro le
applicazioni concrete di teorie e metodi dei processi educativi. Si potrebbe
dire, allora, che la Pedagogia è lo sfondo integratore entro cui si realizza
l’Educazione intesa non solo come i processi dell’ “ex-ducere” e dell’“in-struere”, ma come il superamento di
queste due polarità secondo una visione antropologica dell’uomo come essere
progettuale e come centralità del processo educativo che si realizza attraverso
la relazione. Questo è il modello
educativo che rende l’educazione il
mestiere possibile, anzi il mestiere necessario affinché l’individuo, essere
non definito alla nascita, possa conquistare gli strumenti per auto-costruire
la propria identità autentica attraverso la guida che l’educatore è in grado di
fornirgli. La visione antropologica di uomo progettuale non definito implica la
tesi che senza l’educazione non si dà l’umano, senza l’alleanza tra educatore
ed educando non avviene la costruzione della persona. Ma l’alleanza di cui
parlo non è un rapporto chiuso, circoscritto, distaccato dalla realtà
circostante, anzi, questa alleanza è tanto più determinante quanto più è
connessa al sistema simbolico culturale di riferimento, perché l’uomo non si
costruisce nell’isolamento esistenziale, ma solo all’interno di sistemi
condivisi, aperti, in cui le relazioni rappresentano una sorta di impalcatura
sulla quale l’individuo realizza se stesso incorporando e re-interpretando la
realtà culturale di appartenenza. L’educazione è, pertanto, il processo che
accompagna l’uomo come essere culturale e simbolico, processo che sollecita e
promuove la capacità di decodificare gli stimoli sensoriali che provengono
dalla cultura di appartenenza, definita dal semiologo Lotman come semiosfera in
cui l’uomo abita. Appropriarsi della
cultura in cui si vive e in essa realizzarsi pienamente ci conduce ad
effettuare una riflessione sul concetto di cultura; secondo la definizione del
Taylor la cultura è un insieme complesso che comprende le conoscenze, le
credenze, gli elementi valoriali, le abitudini acquisite dall’uomo come membro
di una società che si struttura all’interno di una dimensione statica. Secondo la tesi del semiologo Lotman la
cultura non è un sistema statico, essa è invece un sistema complesso in
costante divenire, è paragonabile a un vero e proprio sistema vivente che
attraverso il linguaggio e la comunicazione crea ciò che Lotman chiama intelligenza
collettiva. Se la cultura si manifesta sempre attraverso la comunicazione, allora
l’acquisizione del linguaggio rappresenta uno degli elementi più importanti per
poter condividere pienamente e coscientemente la cultura di appartenenza. La
cultura si manifesta, dunque, attraverso la comunicazione che, a sua volta si
esprime, come afferma lo studioso Levy Strauss,
attraverso tre processi: lo scambio dei segni, ovvero, nel modo
tradizionale; lo scambio dei beni e dei
servizi; lo scambio parentale. Le tre forme comunicative, attraverso la lingua,
veicolano la cultura di una società e
sottendono un rapporto di circolarità e influenza reciproca: la cultura rende
possibile la comunicazione che, a sua volta, modifica, attraverso l’uso che i
parlanti fanno di essa, la cultura stessa.
L’uomo, tuttavia, non abita solo la propria cultura, egli è un cittadino
del tempo, di un tempo che si dispiega all’interno della parabola fra l’origine,
cioè la nascita e la fine, ovvero, la morte. L’individuo è l’unico essere
vivente in grado di comprendere la caducità della propria esistenza, è l’unico
che sa di dover morire, ma non gli è concesso di conoscere il tempo in cui ciò
avverrà. L’uomo ha sempre vissuto il tempo come una potenza misteriosa, e per
poterlo accettare, in quanto mistero, ha avuto bisogno di divinizzarlo, di
costruirsi dei miti in grado di alleggerire il fardello della sua impotenza di
fronte all’impenetrabilità del mistero-tempo. La storia della civilizzazione
umana delinea un uomo che ha tentato di esercitare un controllo sul tempo,
traducendo il suo bisogno di conoscenza con la rappresentazione simbolica, nelle sembianze
di serpente come l’ouroboros, nell’antica Grecia, o come avviene nella cultura
Azteca in cui il tempo è identificato con il dio creatore Omotéolt, signore del
fuoco e signore del tempo.
Nelle trama della storia l’interpretazione del tempo umano ha subito una
svolta epocale insita nel messaggio biblico, laddove il tempo è collocato in
una posizione diversa rispetto a quella delle altre religioni o del pensiero
greco classico. Nell’Antico e Nuovo Testamento il tempo da nemico si fa amico
dell’uomo, il cristiano illuminato dalla Parola interpreta il tempo non più
come una linea o come un ciclo dentro il quale si susseguono gli eventi, inevitabilmente
subiti dall’uomo stesso; il tempo biblico interpreta la vita come un ritmo
entro cui l’uomo può agire attivamente tracciando il suo cammino verso la
salvezza offerta da Dio attraverso il sacrificio del Figlio. In un certo senso
l’interpretazione biblica restituisce all’individuo quell’equilibrio necessario
per vivere il proprio tempo in modo armonico, rispettando la scansione degli
eventi con saggezza, ricercando così il
senso profondo della propria vita e del suo essere sulla Terra. Nell’attuale
società si assiste ad una grave crisi delle temporalità umane, secondo Fraser,
l’uomo moderno vive una strana condizione, una sorta di distacco dal proprio
tempo noetico, ovvero il tempo
dell’intelletto, che lo porta a smarrire il senso profondo della vita. Si
smarrisce il senso profondo della vita quando la nootemporalità, cioè il
tempo a misura d’uomo, capace di
interpretare e sostenere l’esistenza tutta dell’individuo, è banalizzato dalla
meccanicità della vita sociale, totalmente immersa nel presente. La crisi della
nootemporalità, a vantaggio della socio temporalità, fa smarrire l’individuo
moderno che non è più in grado di realizzare il suo progetto per il futuro. L’uomo
sociotemporale è colui che inconsapevolmente ha perso la speranza nel futuro
vivendo solo all’interno di un tempo spazializzato, esclusivamente presente.
Attualmente sembra che il presente sia l’unica dimensione esistenziale che
accenda l’umano, si tratta però di una illuminazione fittizia che impedisce
all’individuo di crescere imparando dalla storia, di rielaborare il messaggio
storico in funzione del presente e in funzione costruttiva per il proprio
futuro. Il vissuto diacronico si sgretola di fronte alla necessità moderna di
vivere omologando se stessi al presente. Lo spazio-velocità vissuto oggi fa
perdere la consapevolezza di far parte della storia, fa perdere la forza di
produrre storia e di coltivare i progetti esistenziali. Ciò che bisogna
riconquistare, invece, è un corretto equilibrio fra tempo e spazio, fra tempo
dell’interiorità e della socialità. Il
tempo non spazializzato, quello definito da Bergson “durata reale”, ovvero il
tempo vissuto dalla coscienza dell’individuo, il tempo dell’anima, questa è la
dimensione temporale da ricostituire a nuova cittadinanza.
Lisia
Piovano
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